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mercoledì 5 ottobre 2011

Scartabellando per la mia ampia biblioteca marziale mi sono imbattuto in un vecchio numero di Budo, rivista marziale, ove c'era una graziosa intervista a Royler Gracie. Il discendente della famiglia che ha causato la (ri)nascita del Jiu Jitsu ha espresso in merito al Jiu Jitsu sportivo delle idee che trovo molto interessanti e degne di considerazione, soprattutto se fatte da un Gracie che peraltro, da quello che possono sapere le mie fonti, non si è mai espresso negativamente sulle gare:
" [...] il buon lottatore deve saper gareggiare e non pensare a finalizzare solamente; deve saper guadagnare punti e vantaggi, e poi finalizzare. Deve tener presente il tempo della lotta. Deve sapere giocare con i suoi sostenitori, con la mentalità dell'arbitro, fare in modo che il pubblico si metta dalla sua parte e contro l'arbitro (o che l'arbitro si metta dalla sua parte, ndr). [...] Un buon lottatore deve conoscere bene il regolamento della lotta. Se non riesce a finalizzare deve guadagnare punti, se non riesce a farlo deve guadagnare vantaggi, e se non riesce a guadagnare vantaggi deve suggestionare i presenti."
Devo dire la verità queste cose, in fondo, le ho sempre sapute, fin da quando si faceva a gara a creare un kiai che si intrappolasse perfettamente con la tecnica, sebbene del tutto priva di efficacia reale, negli allenamenti a punti per le gare di Karate. Tutto per i puntarelli che il Sensei dava a noi bambini. Il "colpo di teatro" voleva la sua, già in quella acerba circostanza. Cosa nota quindi, a tutti alla fine. Eppure nessuno così chiaramente aveva espresso quante qualità decisamente non marziali fossero necessarie per fare gare marziali. Ed è ancora più stupefacente se pensiamo che chi fa queste affermazioni è un atleta professionista che ha fatto anche delle gare di Jiu Jitsu il suo lavoro e la sua vita. L'onestà intellettuale prima di tutto sembra dire Royler. "Diciamoci la verità" sembra suggerire ai lettori. Probabilmente la profonda sicurezza in sé stesso gli fa dire come stanno le cose, perché uscito da ben più epiche battaglie delle gare a punti di Jiu Jitsu, può tranquillamente dire quindi quello che onestamente pensa. E' un Gracie e i Gracie notoriamente sono senza filtri.
Competere non è combattere e un buon atleta da competizione può non essere un buon combattente. Parola di combattente e atleta.
Per gareggiare davvero, e non per farsi la gita fuori porta, per arrivare a buoni livelli, bisogna davvero conoscere bene le regole, scritte e non scritte. Bisogna sapere quando slacciarsi e riallacciarsi la cintura per prendere fiato, quando mimare un infortunio inesistente, quando tirare di strappo una Kimura "anche se non si potrebbe fare ma lo fanno tutti così batte per paura", fare la faccetta sicura o sofferente al momento giusto, massimizzare gli insulti dei compagni all'avversario attraverso l'evocazione di un duello di ben più alte cause che non i punti e i vantaggi. Bisogna sapere che per il pubblico l'arbitro è sempre cornuto e che l'arbitro teme il pubblico e il ludibrio più di voi che state competendo. Se l'arbitro sbaglia bisogna saperla far pesare per poi buttarla in caciara e magari fare annullare un fischio di fine match dove avevamo palesemente battuto resa. Quindi è d'uopo faccia tosta e una certa teatralità. Bisogna conoscere i sei, o sette o dieci minuti della competizione e averli nel sangue come un cronometro, per andare in stallo o accelerare nei momenti opportuni. Bisogna portarsi all'angolo fini retori che sappiano come essere minacciosi verso l'arbitro e l'avversario senza scadere nell'ovvietà del turpiloquio. E' importate sapere, per chi compete, come stabilizzare le posizioni per farsi assegnare i punti o come trasformare un improbabile tentativo di finalizzazione in un vantaggio che poi magari ci farà portare la medaglia a casa insieme a l'Io tronfio.
E' evidente che bisogna sapere molte cose che non sono marziali, ma che fanno parte di tutte quelle furbizie che fanno di un uomo comune, un uomo vincente... ma non per questo un marzialista.