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mercoledì 6 aprile 2011

A volte la delusione è troppo grande per continuare senza ridefinire il sistema dei valori. Quando sei oltraggiato da quelle persone che dovrebbero essere un riferimento marziale e forse umano devi vederti attorno e cercare quel che di buono c'è. Allora proprio pensando e ricostruendo la realtà circostante per renderla più accettabile vedi che un'isola felice c'è. E' quella dei praticanti, dei semplici praticanti. Quegli eroi col bilancio sempre in rosso, che hanno girato palestre come nomadi, che hanno sudato mille asciugamani senza nessuna medaglia o quasi. Tutti quegli eroi del quotidiano che indossata la divisa del lavoro, delle imposizioni delle società, corrono ad indossare il kimono, consci che in quella divisa, che apparentemente livella e omologa, possono essere semplicemente sé stessi. Eroi che lottano col traffico, con la loro morosa che non capirà mai bene del tutto perché tutti quegli sforzi per un "corso in palestra", con i colleghi che magari ghignano dietro le loro gesta. Un lato buono nelle arti marziali c'è. E' quello della gente comune, degli appassionati, di quelli che imparata la prima tecnica sono stati rapiti come da un incantesimo. Eroi sempre un po' infortunati, perché non sono campioni però vogliono fare come loro, i campioni, lottare come loro. E allora partono le spalle, le ginocchia, le dita dei piedi e delle mani, partono le costole, arrivano le tendiniti e si passa all'abitudine al dolore. Forse, o quantomeno amo pensare, che si fanno più male dei grandi campioni, proprio per quanto detto. Proprio perché una prestazione senza spettatori, né gloria, né riflettori, una prestazione anonima, eppure corretta e serena, vale tutto per costoro. Fanno Jiu Jitsu, Karate, Kung Fu, Boxe, Jeet Kune Do... poi si mischiano, si scambiano perché di fondo tutti sono appassionati di tutto. Persone lontani dalle cronache e lontani dal marciume delle polemiche, del doping, del fisico "aoh io non me so mai bombato"-"ma chi ce crede!!!!!!". Lontani dai giochi di potere. Così lontani che li subiscono passivamente, con fedeltà. Fedeltà verso la loro disciplina marziale, verso se stessi e la loro passione. Quando frequenti solamente loro, ti sembra che il problema delle arti marziali sia quello un po' borioso, o quello un po' invidioso o quello spaccone. Poi esci, vai da quelli che ti devono insegnare, quelli che hanno in mano il circo, quelli che conducono la macchina, quelle contornati da nani e ballerine e ignobili leccaculo e vedi che anche il più stronzo di loro è davvero innocuo perché in fondo, come tutti gli altri, vuole soltanto praticare.
Un praticante, sul web, mostra fiero la seconda striscia sulla cintura bianca
Sono, siamo, tutti lì con lo stesso fine: vedere se questo corpo che assolutamente non abbiamo scelto altrimenti avremmo preso modelli ben migliori può davvero fare qualcosa per noi, può davvero regalarci emozioni col suo confrontarsi. Mi vengono in mente mille nomi distillati da diversi anni di pratica, così a caso: Remo, Daniele, Andrea, Simone, Luca, Marco, Valerio, Gianfranco, Gian Paolo, Frankie, Lorenzo, Giovit. E ancora Salvatore, Bernardo, Cristiano, Marco, Luigi, Fabio, Asterio, Franco, Sandro, Marcello... Qualcuno insegna, qualcuno qualche alloro ce l'ha pure, qualche altrolo vorrebbe, altri praticano, studiano, si informano. Gente comune comunque. Le entrate, se ci sono, non compenseranno mai le spese e gli acciacchi li pagheranno per tutta la vita. Costoro hanno vinto, non so cosa, non so dove ma hanno vinto di sicuro, altrimenti non continuerebbero imperterriti. C'era un'ideologia che proponeva che la classe subalterna governasse. Se loro, gli eroi del quotidiano, potessero avere potere decisionale, avremmo un mondo marziale migliore. Avranno, avremo, un solo avversario sleale: il tempo. Che pare andare sempre di fretta e ci batterà lentamente. Ci lagneremo allora di domineddio che ci ha fatti effimeri come i fiori e bramosi di imprese come dèi immortali.