Avevamo tutti una splendida utopia. Figli del qualunquismo, dell'edonismo reaganiano, della caduta delle ideologie novecentesche, ci era stato facile darci a una nuova ideologia, un nuovo culto. Le arti marziali erano per noi qualcosa di misterioso, segreto e iniziatico che ci avrebbe finalmente donato quella giustizia che madre natura non aveva saputo dare. Sempre un po' distratta nel distribuire le sue grazie pensavamo che l'avremmo superata, la natura. Con qualche movimento segreto, una respirazione, una "mossa" (quando le tecniche erano le mosse!) avremmo appianato divari fisici, colmato la nostra irrimediabile ritrosia ad allenarci duramente e percorso quel do, quella via, che in questo caso sarebbe stata un po' una scorciatoia, perché con il potente strumento delle arti marziali avremmo potuto fare tutto senza forza, senza badare a chi pesava più o agli indici di massa magra. Utopia toccante in fin dei conti: democratica, egalitaria, non classista. Meglio della polvere da sparo, saremmo stati tutti uguali di fronte il colpo del marzialista. I divari di ormoni e muscoli striati erano cose per primitivi, l'uomo nuovo avrebbe avuto il Ki o il Chi, energia interna o sublimi geometrie da applicare al combattimento.
Forse in primis fu il Full Contact che iniziò a distruggere i vari totem apotropaici. Persone muscolose (oggi sarebbero dei seccacci al cospetto di qualsiasi grappler di ultima generazione), che con tecniche troppo, terribilmente simili a quelle del Karate si mettevano knock out secondo la legge del più forte, quella legge di natura che non sempre segue la bontà della tecnica e tantomeno dell'energia interna. E, perbacco, si allenavano duramente. Allenamenti moderni e funzionali, altro che forme. A traino arrivarono tutte le discipline del complesso detto genericamente Kick Boxing.
Per chi è nato e cresciuto con la Katana è dura far spazio ai moderni eserciti. Come nel Giappone verso la fine del periodo feudale, quando i samurai dovettero essere sostituiti dai moderni eserciti, modellati sull'avanzare della tecnologia, sul sentimento scientifico occidentale. Meglio morire che posare la Katana. Molti samurai per mano propria o d'altri perirono in quella transizione storica. Ma cos'era quella tragica scelta se non la paura dell'ignoto, della potenza del nuovo mondo, la paura di una transizione che avrebbe spostato tutti i valori?
Tutti un po' fregnoni e creduloni, non ce lo siamo mai detti, ma noi ultimi samurai, abbiamo visto nei Gracie rinascere il mito dell'uomo che distrugge le leggi di natura. La realtà era ben diversa, semplicemente i Gracie lottavano su un livello di scontro che gli altri ignoravano. Oggi sappiamo che la lotta, di qualsiasi tipo, a meno che il divario tecnico non sia molto, ma molto, marcato concede sovente le sue grazie a chi è più forte, più allenato, più plasmato sui moderni allenamenti e sui moderni integratori. Nella stessa maniera degli sport ove si colpisce con le mani e i piedi. L' "Homo Gracius" avrebbe lottato disegnando bracci di leva, e posizionando fulcri, nel fluire del gioco degli scacchi umani, laddove un buon intelletto, una conoscenza archimedea delle leve avrebbe fatto tutto, a sfavore del volgare, scimmiesco muscolo.
Ma i samurai si sa, sono un po' coglioni.
Sì per noi, per quelli che sono nato nati in quei circa quindici anni che vanno dagli ultimi anni Sessanta ai primissimi Ottanta, è davvero difficile cambiare quell'impostazione, quella maniera di vedere le cose che, tutto sommato, era stata proprio la spinta ad iniziare le arti marziali. Se riusciamo a farlo, se riusciamo a darci alla modernità, lo facciamo con la rabbia scomposta, con l'eccesso infantile del pupone deluso e ci scagliamo tronfi contro il vecchiume, contro i samurai, in nome della modernità ma in verità la nostra rabbia è delusione verso la nostra creduloneria stessa. E per quanto la modernità ci faccia tutti i giorni bagni di realta, basta poco per ricadere in tentazione e rimpugnare la katana gettando l'arma da fuoco. La katana. Allegoria di tutte le arti marziali, di tutti gli amanti delle culture combattive dell'oriente. L'utopia, dicevamo, quella di un mondo ove le diseguaglianze fisiche sarebbero state livellate da abilità marziali che immaginivamo sarebbero state in quantità proporzionale allo spessore morale del possessore. Solo i giusti, i nobili d'animo, avrebbero potuto accedere ai piani più alti della conoscenza marziale.
Sì, facciamo i dimentichi, gli smemorati. Magari diciamo "Eh sì, ma ero un ragazzino!". No, non lo eri, per biologia e per intelletto. Abbiamo creduto alla superiorità di cose che stanno morendo. Ma anche questo mio è l'atteggiamento deluso ed eccessivo di tutti coloro che nella Storia hanno scritto qualcosa dopo la Restaurazione.
L'utopia tale è rimasta e mentre vi scrivo mi accorgo sinistramente, come scriveva Paolo Villaggio, che se continuo finirò a parlarvi di uno dei miei argomenti collaudati, l'operaio della catena di montaggio della Ducati.
Gli ultimi samurai.
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