mercoledì 20 novembre 2013

Un Karate che non esiste più

Hiroshi Shirai non ha bisogno di presentazioni, basti dire che è uno di quegli ambasciatori del Karate che portarono questa disciplina dal Giappone alla nostra penisola.
Leggenda del Karate e riferimento didattico per molti karateka lo vediamo impegnato in un video ormai d'epoca, anni '70.



Il Karate che possiamo vedere è diverso, non sembra neanche Karate. E' ricco di percussioni, ricco di tecniche, lavora a tutte le distanze utili per colpire, afferra, stringe, salta...
Un Karate che sembra davvero quello "dalle 200 e passa tecniche", come scriveva qualche libro vecchiotto che posseggo.
Sembra a tratti American Kenpo o Kajukembo, a tratti si vede la genitura degli ancestors del sud della Cina.
Di video simili ce ne sono altri, per motivi legati alla durata e alla fama del Maestro Shirai ho scelto questo.

Volendo cercare qualcosa di simile ma contemporaneo ci si imbatte in un video dal fine confuso.
Come sempre accade in tutte le arti marziali sportivizzate, non si capisce bene dove inizino e dove finiscano le tecniche di gara, il perchè queste siano presenti laddove non servono e il perché non siano presenti altri e ben più utili strumenti che eppure fanno parte del patrimonio della via della mano vuota.

Si vorrebbe suggerire qualcosa che ha a che fare con il combattimento reale, qualcosa che dimostri le potenzialità del Karate vero. Ne esce un quadro patetico di una ragazza tanto atletica, e certamente tanto ottima ginnasta e agonista, quanto certamente del tutto impreparata ad un combattimento reale, qualsiasi accezione vogliamo dare a questa locuzione.
Sia che vogliamo intendere combattimento a contatto pieno, sia che vogliamo intendere difesa personale.
Il ragazzo del video è chiamato ad una patetica parte che diviene tale proprio per il confuso fine del video.
A tratti sparring partner, a tratti aggressore, ha la combattività di una persona che rimprovera un cane dopo una marachella, finta, artefatta, mutilata, inverosimile.
Tutto questo potrebbe essere scusato se ci fosse almeno una bontà tecnica, una razionale speculazione tecnica. Ma tutto questo manca. La ragazza è chiusa in un gabbia con quattro lati. Si chiamano, Mawashi Geri, Ura Mawashi Geri e Giaku Tsuki e Kizami. Queste quattro tecniche, utilissime in gara, la costringono anche in questo caso dove si voleva dimostrare forse qualcosa di non sportivo, ad un salterino alternarsi di questi quattro demoni sportivi. La costringono, nel più palese dei riflessi agonistici, a tenere scioccamente un pugno entrato e a segnalare quello che sarebbe stato in gara un punto con un altrettanto fuori luogo Kiai (grido).Né pragamatica, né ricerca storica marziale.
Nel complesso non rimane che sperare che questa ragazza non debba mai usare il suo Karate o quantomeno che sia perfettamente conscia del fine dimostrativo (e mal riuscito) di quello che stava facendo. Potrebbe così evitare di imbattersi in situazioni che se reali potrebbero essere davvero spiacevoli.

Un Karate che a distanza di quarant'anni sembra una nuova disciplina. Talmente imbestialita dai punti, dai kiai di gara, dalla mimica "aho damme er punto, nun lo vedi che je so entrata" (non so perché, ma il romano rendeva bene l'idea dell'arrogante pretesa) da non sapersene riprendere.
Segno evidente che gli orientali, così mi pare, hanno ben saputo vendere se stessi e i loro tesori culturali salvo poi assicurarsi che il cliente non apportasse modifiche che mettessero in discussione la bontà del prodotto da loro venduto. Schiavi del soldo dell'opulento occidente ci hanno permesso di storpiare tutto o quantomeno si sono piegati a tutto pur di piacerci e gettare al volgo quel che voleva. Peccato perché questo tipo di protezione sul prodotto finale, che non può essere annientato nella qualità dal cliente, ce l'ha perfino l'iPhone.